Lo spettacolo, rappresentato da un allestimento scenografico costituito da un “labirinto” di scene, inizia alla morte Amleto, che a quel punto ripercorre a ritroso parte delle scene inserite nell’opera del Bardo, dove la narrazione non è il qui e l’ora (o non sempre) ma sono azioni, reazioni e testi di personaggi che sanno già come è orientata la storia. Proprio questa è la situazione che crea la condizione per innescare un gioco con le maschere: è vero, è falso?
Falso? E la maschera rimane.
Vero? E allora la maschera cade.
Amleto così può guardare negli occhi il personaggio. Cercare in quegli occhi un pezzo della sua verità, contemplare quante finzioni ha messo in campo per la ricerca di una verità prima e per difendere poi le sue stesse finzioni, fino a creare un labirinto da cui esce con il silenzio, la consapevolezza e infine la morte.
Tutto questo sistema di relazioni viene tradotto in un gioco drammatico di montaggio e smontaggio reciproco di maschere e situazioni fittizie, che avrà anche molti momenti allegri e comici, ironici e dissacranti.
Lo spettacolo vive di un linguaggio usato non sempre per comunicare, ma a volte per nascondere il senso (è la modalità di Amleto, della sua follia finta-vera) per arrivare a mettere in scena un dramma dentro il dramma per scoprire tramite la finzione la realtà espressa dalla narrazione (è quanto fa Amleto nel terzo atto, facendo recitare a corte il dramma di Gonzago).
Questo viaggio alla ricerca di una nuova opera, questo possibile Amleto, ammantato di finzione per raggiungere la verità, sarà uno strumento e un pretesto per parlare della realtà che ci circonda e di noi, suoi interpreti quotidiani.