RICCARDO III NON S’HA DA FARE
L’emozione che qualcuno riceve nella sua solitudine non è pericolosa, ma l’emozione collettiva nata da un rapporto tra un saltimbanco e una folla, quell’emozione può divenire un cocktail pericoloso, perchè quell’emozione lì, l’emozione collettiva, è l’embrione della rivolta.
L’ultimo incubo del regista Vsevolod Mejerchol’d fucilato in prigione su ordine di Stalin nel 1940: Mejerchol’d deve rappresentare Riccardo III di Shakespeare autore non censurato dal regime stalinista ma la commissione che controlla l‘arte al servizio della rivoluzione ritiene che lo spettacolo sia controrivoluzionario, così Mejerchol’d è costretto a confessare, a dire ciò che il partito vuole sentire. Una riflessione sul senso del fare teatro, un teatro libero dal regime anche quello delle società cosiddette democratiche dove la censura è il politicamente corretto, perché il teatro non è uno specchio ma una lente d’ingrandimento – diceva Majakovski - forse non è nella testa che noi siamo liberi, forse siamo liberi solo nel cuore, si legge nel testo. Nel Riccardo III non s’ha da fare si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una struttura a Matrioska. Mejerchol’d utilizza un testo di Shakespeare per denunciare il regime del “Generalissimo”, Visniec attraverso la vicenda di cui Mejerchol’d cade vittima, denuncia un’altra forma di regime, quello della società capitalista.
L’Uomo ed il Teatro forse si trovano laddove vengono spogliati di tutti gli orpelli e sovrastrutture così dentro una Matrioska se ne trova un’altra e poi un’altra ancora fino a quando non si può togliere più nulla. Un processo di sottrazione, una scrittura drammaturgica che crivella mura dai cui buchi emerge la luce.