MIGRANTI
(siamo in troppi su questa cazzo di barca)
Ancora un testo di teatro modulare, quadri che come frammenti di uno specchio il regista e gli attori possono comporre liberamente secondo il loro personale sguardo. Un tema scomodo, scivoloso e feroce, che Visniec affronta senza sconti, attraversando codici espressivi che vanno dal tragico al grottesco in una direzione dissacrante che restituisce appieno in tutta la sua crudezza l’immane catastrofe umanitaria a cui assistiamo, purtroppo ancora, in una quotidiana e parziale indifferenza. In un mondo globalizzato siamo tutti migranti – fa dire Visniec ad uno dei personaggi del testo, il Coach, che si sforza di correggere il discorso del Politico ed edulcorarlo: la parola migrante è da preferirsi alla parola immigrato, aggiunge con sarcasmo, il migrante è libero, libero di muoversi e di spostarsi. Uomini fluidi in un mondo fluido, che molto somigliano in realtà agli Uomini pattumiera del Teatro Decomposto: uomini a cui si può chiedere di vendere un rene, privarsi di un occhio, perché è Dio che ci ha fatti così – dice l’untuoso trafficante di organi a un povero cristo disposto suo malgrado a tutto pur di raggiungere le coste dell’Occidente libero e democratico – con due occhi, due reni, due mani e due gambe, proprio perché potessimo avere un Capitale da vendere. E via così di quadro in quadro, passando per l’Inferno di Calais, per la macchina rilevatrice dei battiti cardiaci in grado di scoprire i clandestini stipati dentro i camion alle frontiere, per i barconi in cui un’umanità disperata anela ad una vita lontano dalla propria terra. Con ferocia e spesso altrettanto efficace souplesse Visniec ci scaraventa addosso un ritratto straziante per la sua disumanità: nulla è inventato – la macchina dei battiti per fare un esempio esiste realmente – senza alcuna retorica e senza sconti.