Roma, 1951.
Uno scantinato malfamato sarà la culla che vedrà nascere rapporti che si svilupperanno nel tempo e saranno le colonne portanti dell'intero impianto scenico che verranno narrate dell'autore.
Due amici, una donna e il suo presente amaro. Si fa chiamare Mamma Roma...
Dopo questo flashback iniziale di 20 anni prima ci catapultiamo nella periferia romana degli anni '70.
Uno dei tanti palazzi di borgata viene scosso di prima mattina da un violento “terremoto”. Mosso da un impeto di giustizia, Alberto, un noto imprenditore napoletano ormai decaduto in miseria, accusa una intera famiglia di omicidio.
Consapevole della veridicità delle prove che ha raccolto sporge denuncia contro il dottor Pasquale Romanelli che viene indagato. Ma l’attimo in cui il commissario porta tutti in questura per i dovuti accertamenti, rappresenta la “scossa” che fa precipitare tutto.
Le prove non ci sono, il fatto non esiste e Alberto ha sognato tutto.
Questa scossa dà vita ad una serie di vicende di palazzo con i personaggi che vengono inghiottiti in vortice psicotico. Tutti diventano carnefici e vittime della loro “miseria” identitaria, al punto da incolparsi senza motivo con l’irreale che diventa reale.
La privazione del senso di famiglia arrivando all’implosione della coscienza al fine di salvarsi, scatena nello spettacolo il principio generatore di una catarsi, quasi di una punizione contro gli umani e soprattutto contro gli uomini. Sono proprio loro, gli uomini dello spettacolo con le loro miserie psicotiche, a perdere il timone del comando e diventano come marionette nelle mani delle “femmine” che diventano donne con il coraggio di alzare la testa, parlare e farsi rispettare, governate dai loro caratteri e dalla loro anima viscerale.
La povertà della coscienza umana viene sublimata dal contesto pasoliniano dove i personaggi si rivelano dei veri e propri “accattoni” incapaci di aderire positivamente alla vita, essendo travolti dai problemi da loro stessi creati. E l’urlare delle loro coscienze, impossibili da frenare dallo stesso spirito di autoconservazione, scatenano le Voci, quelle chiacchiere di palazzo che diventano confidenze, confessioni e si "intrufolano dentro alle case dell’altri come i topi e vogliono fa credere de esse na famiglia".
Da accusatore ad accusato a espiatore delle amine e degno conoscitore di tutte le voci del palazzo, Alberto si eleva a totem moralizzatore, seppur marionetta dei propri sogni e superstizioni.
Qui NAPOLI E ROMA SI INTRECCIANO: la carnalità della borgata romana unita a quel pizzico di follia dettata dalla personalità del “non è vero ma ci credo” e della superstizione.
Voci è una commedia amara, liberamente adattata da Emiliano De Martino da “Le Voci di Dentro” è fortemente influenzata dall’apporto degli interpreti, dei loro pensieri e dei loro mondi che portano all’interno dello spettacolo stesso. Si alternano momenti estremamente brillanti e surreali ad attimi di riflessioni veraci, dirette. Guida tutto una sapiente regia quasi cinematografica che gioca con i quadri alternati delle scene, con le luci e le ottime scelte musicali che si alternano a momenti di musica live. L'intreccio dialettale dei vari personaggi colora in modo concreto le loro anime e i loro caratteri, portandoli molto vicini al pubblico in un gioco delle parti davvero avvincente.